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Islanda: studi sul mistero delle tempeste di sabbia nera

Le ricerche scientifiche sulla polvere che si origina nelle alte latitudini potrebbero migliorare notevolmente le previsioni riguardo il riscaldamento globale e i futuri modelli meteorologici.

Un numero sempre crescente di studi sta analizzando la sabbia per esplorare il suo impatto sul clima e sui sistemi meteorologici. La località scelta per queste ricerche potrebbe sembrare inaspettata.

L’Islanda, in quanto più vasto e attivo deserto d’Europa, è caratterizzata da 44.000 km² di polvere vulcanica nera, invece delle consuete dune di sabbia arancione. Come accade nei classici deserti, queste superfici piatte generano sabbia, capace di dar vita a potenti tempeste di polvere in presenza di vento.

Queste particelle, conosciute come “polvere di alta latitudine” (Hld), provengono principalmente dalle zone attorno al Circolo Polare Artico, pur raggiungendo occasionalmente l’Europa continentale.

Ogni tipo di polvere presenta un’impronta unica, a seconda delle sue componenti: le particelle islandesi sono costitute principalmente da vetro vulcanico nero.

“Abbiamo rinvenuto polvere nera islandese non solo in Finlandia, ma anche in Serbia”, afferma Pavla Dagsson-Waldhauserova, ricercatrice all’Università di Agricoltura dell’Islanda e presidente dell’Icelandic Aerosol and Dust Association.

Come si origina la polvere in Islanda?

Le Nazioni Unite classificano la desertificazione come una delle maggiori sfide ambientali attuali, poiché i cambiamenti climatici e le attività umane trasformano ecosistemi floridi in aridi deserti.

I deserti islandesi sono il risultato di interventi umani. “Questa zona avrebbe potuto essere una foresta di betulle”, commenta Dagsson-Waldhauserova, osservando l’attuale paesaggio spoglio. I coloni vichinghi tentarono di coltivare la terra con metodi adatti per il Nord Europa, ma tali approcci si rivelarono inefficaci nel clima più freddo e ventoso dell’Islanda.

Nel corso dei secoli, il paesaggio è andato deteriorandosi, con solo il 2% dell’Islanda attualmente coperto da foreste o boschi.

Alcuni scienziati sostenendo che l’Artico possa tornare a essere verde e rigoglioso, la riforestazione in Islanda avanza lentamente, con obiettivi modesti. Il Servizio Forestale Islandese (IFS) spera di aumentare la copertura forestale del Paese al 4% entro il 2050.

Una volta iniziato, il processo di desertificazione è difficile da rovesciare: ci sono circa 135 giorni all’anno in cui la polvere si solleva dal deserto islandese, contaminando altre aree dell’Europa o dell’Islanda ancora intatte. Le eruzioni vulcaniche contribuiscono ulteriormente producendo cenere e intensificando le condizioni desertiche.

Quali sono gli effetti climatici della polvere nera delle alte latitudini?

Le conseguenze climatiche della polvere nera a grande altezza si discostano significativamente da quelle delle polveri a bassa latitudine. L’IPCC riferisce che la polvere più chiara proveniente dai deserti sahariano e asiatico può presentare effetti benefici, poiché riflette la luce.

Al contrario, le particelle di polvere islandese sono più scure, il che implica che assorbono la luce solare, contribuendo così ad alzare la temperatura della terra e dell’aria.

“L’effetto più significativo sul clima è il deposito [di polvere] sulla criosfera”, spiega Dagsson-Waldhauserova, facendo riferimento al ghiacciaio Myrdalsjokull. Quando la sabbia nera si accumula in uno strato di 1,3 centimetri sui ghiacciai, il calore generato provoca lo scioglimento del ghiaccio.

La ricercatrice ha monitorato il deterioramento del ghiacciaio per oltre due anni grazie al progetto Planet Watch, finanziato dalla Cop21, fornendo telecamere per osservare dieci ghiacciai a livello globale.

Analogamente al carbonio nero, questa polvere rappresenta un importante inquinante atmosferico e un fattore che contribuisce al cambiamento climatico nelle delicate regioni artiche. La sua diffusione ha impatti anche sui ghiacciai della Groenlandia e sui ghiacci marini, asserisce Dagsson-Waldhauserova.

Con il riscaldamento dei ghiacciai, la polvere diventa sempre più accessibile. “Sotto i ghiacciai si trova il materiale roccioso finissimo, una fonte infinita di polvere,” chiarisce l’autrice.

Dagsson-Waldhauserova monitora le aree attive di polvere e sta sviluppando un modello regionale di polvere più preciso grazie a diversi strumenti di misurazione sparsi in tutta l’Islanda.

Grazie al programma di monitoraggio Copernicus (Cams), la ricercatrice ha recentemente completato il primo anno di osservazione continua delle polveri. “I modelli di polvere globali spesso non considerano le fonti Hld o presentano risoluzioni troppo basse. I nostri dati in situ dovrebbero aiutare gli studiosi a migliorare questi modelli”, dichiara a Euronews Green.

Ogni anno si stima che circa 2 miliardi di tonnellate di sabbia e polvere vengano immesse nell’atmosfera, riducendo la visibilità e generando problemi di salute come malattie respiratorie.

I rischi connessi sono ancora trascurati: “Negli ultimi 150 anni, solo due persone hanno perso la vita a causa di eruzioni vulcaniche, mentre le tempeste di polvere hanno causato centinaia di morti in incidenti in Islanda,” afferma Dagsson-Waldhauserova.

La polvere nera come indicatore per la formazione delle nuvole

La polvere ad alta latitudine può anche contribuire a un effetto di raffreddamento. Essa, trasportata dall’aria, ha il potenziale di incrementare il numero di nuvole nel cielo, fungendo da nuclei per la formazione dei cristalli di ghiaccio, un passaggio cruciale nel processo di creazione delle nuvole. “Anche una manciata di particelle di polvere può influenzare notevolmente la formazione e la durata di una nuvola,” chiarisce Polly Foster, dottoranda all’Università britannica di Leeds, che sta investigando questo fenomeno.

La composizione particolare dell’Hld, con il suo colore scuro e l’elevato contenuto minerale, la rende particolarmente efficace nella formazione di nuvole ricche di ghiaccio o acqua.

Le nuvole hanno un ruolo fondamentale nel clima terrestre, attraverso un processo definito feedback nuvola-clima.

Esse sono essenziali per il ciclo dell’acqua e influenzano significativamente la temperatura del pianeta, regolando l’energia solare riflessa verso lo spazio e quella di calore accumulata.

“Se riusciamo a quantificare la polvere che si solleva, potremo prevedere meglio le nuvole, il che ci aiuterà a migliorare le previsioni sul riscaldamento globale e sui modelli climatici,” dichiara Foster.

Tecnologie per previsioni più accurate

Per rivelare quest’enigma, i ricercatori devono comprendere come le particelle si distribuiscono a diverse altezze nell’atmosfera. Foster sta sperimentando un metodo innovativo per identificare la presenza di queste particelle: “Forse abbiamo trovato una nuova soluzione. È un approccio mai utilizzato prima ed è davvero stimolante e significativo,” afferma.

Il team utilizza un drone meteorologico per misurare diverse altezze. “Il nostro drone registra temperatura, pressione, umidità e venti bidimensionali, oltre al numero e alla dimensione delle particelle in tempo reale, raggiungendo fino a due chilometri d’altezza,” spiega Ben Pickering, meteorologo della società di droni Menapia.

Finora, solo i palloni meteorologici e strumenti laser chiamati lidar hanno avuto la capacità di misurare lo strato limite atmosferico (Abl), il livello più vicino alla superficie terrestre.

“L’Abl è cruciale per migliorare la precisione delle previsioni del tempo, poiché è il luogo in cui avviene lo scambio energetico e in cui può accumularsi l’inquinamento atmosferico,” aggiunge Pickering.

Eppure, mentre i palloni meteorologici sono costosi da gestire e forniscono misurazioni solo due volte al giorno, e il lidar opera solo in condizioni meteorologiche favorevoli, i droni si rivelano un’opzione economica e affidabile.

Foster ha collegato al drone uno strumento innovativo in grado di catturare particelle in quantità molto ridotte su vetrini, offrendo una visione senza precedenti sul comportamento e sul trasporto della polvere.

Contestualmente, le particelle vengono raccolte a livello del suolo con lo stesso strumento per permettere un confronto con i campioni raccolti in volo. “Se i risultati fossero favorevoli e riuscissimo a dimostrare come la polvere viene trasportata in altezza, sarebbe straordinario,” conclude la ricercatrice.

La redazione di questo articolo è stata sostenuta da un premio per il giornalismo scientifico dell’Unione Europea delle Geoscienze.

Foto crediti & articolo ispirato da: Euronews

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